venerdì 10 gennaio 2014

IL SUONO, COMUNE DENOMINATORE DELLE RELIGIONI.


Il Papa, la notte del 27 ottobre 1986, durante la Preghiera per la Pace ad Assisi, invitò ogni capo religioso presente a mettere da parte per un attimo il proprio ruolo sociale e politico, a togliere virtualmente l’abito e il copricapo, indossare l’ umile abito dell’uomo semplice di fronte a Dio.

Il Papa invitò i presenti per una sera a non prendere decisioni, a non fare alleanze, a non progettare soluzioni e strategie politiche di dialogo interreligioso, ma a fermarsi e chiedere umilmente aiuto a Dio. La cosa sorprendente e innovativa è che il Papa chiede a ognuno di loro di parlare al proprio Dio con la lingua, il metodo, il rito, la preghiera e la parola che loro conoscono. Chiede ad ognuno di riconoscere la propria identità, la propria umanità di fronte a Dio, nell’intima preghiera solitaria e silenziosa.

Un silenzio che grida, in realtà, al mondo Pace e Umiltà, Fede e Carità.


Io non ero presente, ma leggendo le parole del Papa, che parla di preghiera, digiuno, ricerca spirituale, immagino un silenzio carico di parole, una forza enorme evocata da così tante preghiere fatte all’unisono, ognuna nella propria lingua e secondo la propria tradizione. Non dimentichiamo che c’è un motivo profondo se tutte le religioni del mondo utilizzano la preghiera, tutte danno al suono un significato profondo.

Infatti, come anche dice il Vangelo di Giovanni (1, 1-5)

 

In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
 la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta
.

 

In principio era il verbo, ovvero la parola, ovvero il suono. Perché dal suono (che è ritmo, forma e colore) tutto prende vita, tutto è luce, suono e forma. Questo lo ritroviamo in tutte le religioni, spiegato in modo diverso, con parole diverse, ma indica la nostra unione e uguaglianza davanti al Dio creatore.

E infatti tutti noi, al di là del Credo, rendiamo Grazie al nostro Dio tramite le parole espresse nelle preghiere.


Nello Yoga, e quindi nella tradizione induista, l'importanza del suono è fondamentale, ed è legato alla recitazione di Mantra, attraverso l'uso del sanscrito, lingua considerata sacra e quindi l'unica "ufficiale" e l'unica utile alla recitazione stessa.

Il Maha Mantra, ovvero il Bij Mantra principale in quanto fu il primo, è il suono AUM (che si pronuncia OM) ed è legato alla creazione, ovvero la tradizione sostiene che questo sia il suono, la vibrazione, che veniva emessa dalla creazione stessa, quindi è il primo suono che fu emesso.

 
Sui piani sottili ogni suono (Nada) ha la sua forma (Rupa), ogni cosa viene creata attraverso un suono, ovvero una vibrazione (Spanda), un movimento della materia primordiale (MulaPakriti), dinamizzata grazie al potere che il Purusha (prinicipio maschile) ha di metterla in moto.


L’ importanza del Maha Mantra è tale che nella maggior parte dei Mantra c’è sempre la parola AUM, e l’AUM stesso è un Mantra, il più sintetico, ma comunque il più importante e più potente.

Inoltre il suo significato non termina qui, infatti le sue tre lettere: A, U, M, sono legate alla Trimurti, ovvero alle tre energie che provengono dallo stesso Dio, Ishvara, queste energie sono: Shiva (energia distruttrice), Vishnu (energia conservatrice) e Brahma (energia creatrice).


Si può quindi intendere qui perché le religioni, tutte, abbiano in comune l'uso del suono, della preghiera, un buon punto di partenza per  una mediazione che parte dal dialogo stesso, fatto in fin dei conti di suoni. 

 

DALL'ASHRAM DI SHANTIVANAM VERSO ALCUNE RIFLESSIONI SUL DIALOGO INTERRELIGIOSO

Vorrei fare una riflessione personale partendo da questa citazione, tratta dal saggio “L’ashram di Shantivanam: un incontro tra cristianesimo e induismo” del Prof. Paolo Trianni:
“(…)Una teologia e una spiritualità come quella che si è fatta intorno a Shantivanam è dunque importante. Essa non è confusione, non è relativismo, non è sincretismo, ma semplicemente ricerca di una verità che non può essere contraddittoria. Il cristianesimo ha bisogno di fecondarsi con l'India, di arricchirsi attraverso la sua cultura religiosa. Il messaggio di Cristo, dopo il Giordano, dopo Atene, forse non si deve fermare sul Tevere, forse ora è il momento del Gange... La chiesa si può solo arricchire incontrando l'India, così come si è arricchita incontrando il mondo greco e quello latino. Diceva Le Saux: "Se il mistero cristiano è vero lo si ritroverà intatto anche all'interno dell'esperienza svuotante del Vedanta". In fondo è stato così. Tra le sue ultime e più enigmatiche frasi c'è un'espressione radicale: "Il Cristo per me sono io". In questa esternazione c'è tutto il cristianesimo, ma c'è anche l'advaita, la non dualità del Vedanta, sebbene negli ultimi anni si sia piuttosto avvicinato al tantrismo. Pur con le domande aperte, dunque, e il necessario cammino valutativo che deve fare la teologia, Shantivanam rappresenta un'esperienza di dialogo straordinaria, e una grande ricchezza per la chiesa impegnata a inculturarsi nei contesti dell'Oriente."
Ritengo che, nell’ottica del dialogo interreligioso, l’incontro tra Oriente e Occidente sia necessario per comprendere meglio noi stessi, le nostre origini e così le origini della nostra fede. D’altronde Gesù stesso non è nato in Europa o in America. Si dice che grandi Maestri come ad esempio Paramahansa Yogananda (1893-1952 autore di “Autobiografia di uno Yogi”) sono stati inviati in Occidente perché avevamo bisogno dello Yoga e degli insegnamenti ad esso correlati.
In effetti è così: abbiamo grande bisogno degli insegnamenti dei grandi Maestri Orientali, ma non per rinnegare la nostra fede e scoprirne un’ altra, ma proprio per creare una fede ancora più forte, concreta e solida, partendo dall’incontro delle due religioni. Un ritorno alle origini che in questa epoca nera abbiamo perso e dimenticato troppo spesso.
In questo articolo mi riferisco all’incontro tra Induismo e Cristianesimo. L’induismo è la religione più antica esistente, soprattutto la più immutata nel tempo. E’ forse l’unica religione così aperta da porsi già di per sé, per sua natura, a favore del dialogo fra le religioni, prima ancora che in Occidente si cominciasse a parlare di dialogo. l’India è uno dei pochi paesi, se non l’unico, in cui non ci fu antisemitismo, un paese in cui molti ebrei si rifugiarono, senza venire discriminati.
Vi sono molte critiche, dal punto di vista cristiano, rivolte alla visione teologica induista, ma per quanto riguarda la mia esperienza e i miei studi, fino ad ora incontro molti (e sempre di più) punti di contatto che distanze.
Innanzitutto l’induismo sottolinea sempre l’importanza dell’esperienza personale con il Divino, prima ancora che le parole di grandi teologi, che rimangono comunque essere umani. Ciò non toglie la fondamentale importanza dei Testi Sacri e della loro indiscutibili Verità (come giustamente avviene per ogni religione), ma rimane il fatto che l’induismo sia la religione più aperta e flessibile.
Nello Yoga, a volte e sempre da un punto di vista cristiano, viene criticata la visione dell’ Advaita Vedanta, la Non Dualità tra Maya (il mondo illusorio che ci circonda) e Dio, ovvero la teoria della realtà secondo cui non esisterebbe distinzione tra Creatore e creato.
 
Io ritengo che la questione sia ancora aperta, un dialogo da proseguire, perché nel Vedanta esistono anche altre due correnti ortodosse, che solo il Dvaita (è la teoria della realtà che sostiene la distinzione delle anime e del mondo, cioè il dualismo tra la creazione e il Creatore, pur nel loro inseparabile ed eterno legame, è la visione più vicina al cristianesimo) e il Dvaitaadvaita (Maya e Dio sarebbero la stessa cosa ma anche, e contemporaneamente, divisi e distinti).
 
Non possiamo quindi, quando parliamo di induismo, chiuderci dentro una sola parola, una sola affermazione, perché più scavi nell’induismo, più trovi, e non c’è fine alla ricerca.
La visione del mondo secondo l’induismo da una spiegazione a questo: Brahmanda Pindanda: il piccolo si ritrova nel grande e viceversa. Quindi la realtà è tutto e il contrario di tutto.
La speculazione filosofico-teologica è importante per la crescita individuale, ma rimane frutto dell’uomo, solo l’esperienza personale e l’intimo dialogo con Dio, come ad esempio attraverso lo Yoga, ci darà le risposte giuste.
Nei suoi discorsi Sri Chandra Sekharendra Saraswati Swamigal (1894 – 1994) sostiene che la Grazia ci è data dal Brahman attraverso la Moksa (liberazione), se non in questa vita nelle future, purchè continuiamo la nostra ricerca verso la Verità e l’Unione.
Si critica spesso anche la visione dell’induismo come di una religione che non dà grande importanza all’individuo, alla sua personalità, perché è comunque parte di un Tutto, mentre il cristianesimo dona all’individuo la sua personale importanza. Sinceramente, umilmente, non sono d’accordo.
Ci si ferma all’idea delle caste, all’idea del Karma, ma guardandoli solo in superficie, dipingendo il ritratto di un’India crudele e classista. In un’attenta analisi si dovrebbe prendere singolarmente la cultura, la società, i costumi e la religione, gli individui, ed eventualmente analizzare un fenomeno alla volta, sotto i suoi vari aspetti e contesti.
Rimanendo all’interno dell’induismo solamente, ritengo che il Dio indù non potrebbe non dare importanza al singolo: intanto perché ama le sue creature come il Dio cristiano, come d’altronde avviene da parte di ogni forma di Divino in ogni religione.
In secondo luogo, prendendo in considerazione la pratica dell’ Astanga Yoga, si presuppone uno stile di vita che prende necessariamente in considerazione l’Altro: il rispetto per l’ Altro, la non violenza, l’onestà, la castità, e così via..(Yama e Niyama), tutti atteggiamenti e precetti etico-morali che non possono prescindere dall’incontro con l’Altro, in terzo luogo, se l’individuo non fosse importante non si potrebbe parlare di elemosina verso i poveri: i Samnyasin (i rinunciatari) non potrebbero basare la loro sopravvivenza solo sulle offerte e non ci sarebbe un percorso verso la Moksa (liberazione) che presuppone l’abbandono dell’Ego e dell’attaccamento materiale.

martedì 7 gennaio 2014

VI PRESENTO IL "DIM"


Origini e storia del DIM

Con la sigla DIM si intende “Dialogo Interreligioso Monastico” un organizzazione presente in tutto il mondo, la cui sede italiana si trova ad Assisi. Il Dim nasce in seno all’ordine monastico dei Benedettini.

Il Dim è, per definizione, un organizzazione che si occupa del dialogo intrareligioso, difatti, se il Pontificio Consiglio ha dato la descrizione di quattro diverse forme di dialogo interreligioso, quello su cui il Dim pone l’attenzione è il dialogo esperienziale. Il dialogo dell’esperienza è, in fine dei conti, espressione del monachesimo, la cui vocazione è proprio la contemplazione e l’esperienza della religione vissuta “dal di dentro”, immergendo corpo e spirito nella religione, vivendo sul proprio corpo le parole scritte nei Testi Sacri.

Nel Dim si parla di dialogo intrareligioso in quanto questa immersione nella religione e nei suoi precetti, viene fatto non solo all’interno della propria religione di origine, ma anche all’interno delle altre religioni, scambiandosi in un dialogo con Dio le proprie esperienze di monaci. Infatti, nel Dim, vi sono monaci benedettini ospiti di ashram indù, monasteri zen, e così via, e viceversa, si possono trovare monaci di altre religioni presso monasteri benedettini.

Il senso del DIM

Nel Dim troviamo l’incontro e lo scambio attraverso un dialogo contemplativo, ovvero relativo l’esperienza religiosa, intrareligioso (incontro di diverse religioni) e delle mistiche (tipico delle esperienze monastiche). In questo contesto il lavoro del Dim si divide tra un dialogo interreligioso in toto e un dialogo interreligioso specifico dell’ambito monastico. Ovvero, se l’esperienza del Dim nasce e cresce all’interno dei vari ordini monastici, è anche vero che i risultati ottenuti sono contestualizzabili all’interno del dialogo interreligioso in generale, essendo luogo di incontro, scambio e crescita che favorisce una buona convivenza e una sana inculturazione fra le varie religioni, che si tratti di ordini monastici o meno, che si tratti della vita di fede di religiosi o di laici. Il Dim è uno strumento, un luogo di incontro e crescita essenziale nell’epoca che stiamo vivendo, in cui necessitiamo una rivisitazione del dialogo, dell’incontro con l’Altro, dell’esperienza religiosa, dell’incontro con il Divino tout court.  Con “senso del dialogo interreligioso in generale” si intende, non il fondare una nuova religione, universale e comune a tutti, ma piuttosto il rivivere la propria religione in un’ottica nuova, rivivere il senso del proprio battesimo in un contesto di dialogo e incontro con l’Altro. Dialogo interreligioso significa conoscersi meglio, conoscere l’Altro meglio, non chiudersi in un autoreferenzialismo imbevuto di azioni e pensieri chiusi, bigotti o fondamentalisti. Il Dialogo è necessario nella nostra epoca, e negarne l’importanza significa già peccare di presunzione e non seguire in realtà lo stesso messaggio di pace e amore universale che Dio ha donato e trasmesso a TUTTE le religioni.
 

Come ha definito Panikkar, il dialogo è un “incontro indispensabile”. A mio avviso, leggendo il Vangelo con attenzione e apertura, Cristo fu il primo mediatore culturale della storia, basti pensare all’incontro con la Samaritana. Cristo ha sollecitato sempre i discepoli e il popolo tutto, all’incontro e all’amore verso tutti, verso gli ultimi in special modo. L’incontro con l’Altro non deve dar vita ad una nuova religione, costruita a nostro uso e consumo (abitudine molto occidentale), ma deve porsi nell’ottica di un reciproco arricchimento, all’interno della propria religione.

 
Ma perché proprio dialogo intrareligioso nel mondo monastico? Il Dim muove i passi della sua missione partendo dall’esperienza monastica in quanto il monachesimo è la forma più antica di religiosità e denominatore comune di tutte le religioni, nonché incontro tra l’esperienza religiosa Orientale con quella Occidentale. L’esperienza mistica, proprio per le sue peculiarità di vissuto esperienziale della religione, di contemplazione, devozione e studio dei Testi Sacri, è luogo di contatto con le altre spiritualità e occasione di arricchimento fra le stesse.


Spiritualità e teologia del dialogo interreligioso (monastico)


Partendo dalla lettura del discorso del Concilio Vaticano II “Nostra Aetate” possiamo già intuire l’importanza e la necessità, nonché l’urgenza, della riflessione del dialogo interreligioso all’interno del mondo religioso e non. Da questo punto di partenza possiamo analizzare la spiritualità del Dim: il dialogo diventa spiritualità esso stesso, soprattutto se il luogo prende forma il dialogo è l’esperienza monastica, fatta di esperienza e intimo dialogo con Dio. La differenza religiosa diventa luogo di riflessione, dalla propria religione e la propria esperienza religiosa in primis.

Altra caratteristica dei monaci è l’ospitalità (caratteristica comune nelle culture orientali, in cui nasce tra l’altro il monachesimo), dall’ospitalità nasce necessariamente il confronto e il dialogo, ospitalità significa anche condivisione (di vita, di pensiero, di cibo, di esperienze…). L’ ospitalità è anche sinonimo di accoglienza e rispetto del diverso (se sono accogliente lo sono con tutti, a prescindere di chi sia e da dove provenga, perché riconosco in lui il diverso da amare, accogliere, riconoscere e con cui dialogare.)

Il dialogo con il diverso è fonte di ricchezza, un luogo intimo in cui posso mettere in discussione me stesso e le mie idee, cercando il vero volto di Dio e la Verità.

E’ come quando si sostiene che solo viaggiando posso apprezzare e desiderare il ritorno a casa che avviene dopo il viaggio.


Il problema teologico rimane, in quanto questo dialogo non deve dare vita ad una “terza” religione, fatta a misura delle mie specifiche richieste, questa esperienza mi deve arricchire, purché io rispetti la mia religione: non si tratta infatti di un “supermercato della spiritualità”, che potrebbe cadere facilmente in una forma di New Age.. dove Oriente e Occidente si incontrano, il più delle volte creando dei “prodotti” adatti e adattati alle esigenze del fedele occidentale, caratterizzato spesso (spessissimo in questo contesto), dalla “fretta” di imparare e di assimilare le caratteristiche di una religione orientale, senza avere l’accortezza, la pazienza e l’umiltà di animo di studiare seriamente questa forma culturale e religiosa, ma prendendo solo ciò che più mi aggrada.

Il problema teologico rimane un dialogo aperto, ma è fondamentale per dare spessore culturale, ufficialità al discorso interreligioso, ufficialità religiosa non tanto per possedere un titolo o un riconoscimento, ma proprio perché il fedele possa affidarsi e confrontarsi nella certezza di trovarsi su di un percorso reale in cui ricercare il volto di Dio, all'interno della sua Fede, nel rispetto dei Testi Sacri (tutti), in un' ottica moderna e di attualità sociale, ricca di dialogo e incontro con l'Altro.

venerdì 3 gennaio 2014

RIFLESSIONI SU "IL SACRO" DI RUDOLF OTTO

Rudolf Otto (1869-1937) con il suo metodo di studio della religione ha posto, a mio avviso, al razionalismo e al positivismo, quel limite morale e spirituale necessario per non cadere nel processo senza ritorno che porta all’ateismo.
Rudolf Otto affronta lo studio della religione applicando lo stesso metodo fenomenologico tipico del razionalismo, ma ribaltandone l’esito finale. Otto sosterrà infatti che il vero significato della religione, la vera essenza che l’uomo ricerca nella religione, è il Sacro.
Il dizionario Treccani, alla parola sacro scrive:
“In senso stretto, si definisce sacro ciò che è connesso all’esperienza di una realtà totalmente diversa, rispetto alla quale l’uomo si sente radicalmente inferiore, subendone l’azione e restandone atterrito e insieme affascinato; in opposizione a profano, ciò che è sacro è separato, è altro, così come sono separati dalla comunità sia coloro che sono addetti a stabilire con esso un rapporto, sia i luoghi destinati ad atti con cui tale rapporto si stabilisce. Più in generale, che riguarda la divinità, la sua religione e i suoi misteri, e che per ciò stesso impone un particolare atteggiamento di riverenza e di venerazione (…) il sacro, ciò che gli uomini avvertono come totalmente altro e che si manifesta con forza misteriosa, rispetto al quale si sentono sottoposti, spaventati e nello stesso tempo attratti”.
 
Leggendo questa definizione semantica possiamo già intravedere il tema centrale: il Sacro rappresenta una realtà diversa, di fronte alla quale l’uomo si sente inferiore ma dalla quale rimane affascinato. Si deduce qui l’impossibilità di poter scannerizzare il significato del termine sotto la luce del razionalismo scientifico. Non è possibile per l’uomo comprendere il significato del Sacro fino a renderlo totalmente trasparente e visibile a tutti, come potrebbe essere una frattura di un braccio passata ai raggi X. Eppure l’uomo “sente” e accetta questa realtà, non ne nega l’ esistenza, l’importanza, la intima e profonda essenza.
Ateismo, secondo Del Noce, è una scelta da parte dell’uomo, è l’arrivo di un processo di pensiero che parte dalla negazione del soprannaturale. Per questo ritengo che la visione di Otto ponga le fondamenta per chi comincia un percorso spirituale e religioso e, prima o poi, si troverà a domandarsi: “Perché? Chi? Quando?”, etc.
La fede altro non è che l’accettazione silenziosa eppure così immanente e intima di questa sfera inspiegabile ma imprescindibile della realtà. Innanzitutto chi ha fede sa che la realtà non è solo ciò che vediamo e ciò che spieghiamo con parole e prove scientifiche, ma è anche qualcosa di immanente, nascosto, misterioso, superiore a noi, oltre noi, in una parola: sacro.
L’opera di Rudolf Otto è un importante tassello per un approccio interreligioso e antropologico dell’esperienza religiosa dell’uomo, che vive oggi in un contesto multiculturale. Infatti lo studioso affrontò il tema del Sacro partendo dallo studio delle grandi religioni sia occidentali che orientali: cristianesimo, islamismo, ebraismo, culture orientali, trovando il filo conduttore proprio nel sacro come senso comune di tutte queste religioni, al di là delle loro differenze spirituali e/o storiche.
Otto utilizza anche il termine Numinoso per descrivere il senso che l’uomo prova di fronte alla propria nullità, esperienza che l’uomo può vivere all’interno del Sacro.
L’uomo comprende di non essere solo, unico, individuo slegato dal mondo, ma componente di un contesto molto più ampio, totale, che supera il suo raziocinio individuale. In un contesto interculturale e interreligioso, penso che questo potrebbe essere un buon punto di partenza per un dialogo “alla pari”: abbandonare la propria individualità e il proprio egocentrismo, senza per questo annullare l’importanza e l’essenza di ogni individuo, ognuno portatore di differenze e contenuti, ma umilmente mettendosi di fronte all’altro, all’altezza degli occhi dell’altro (come un dialogo vero presuppone) cominciando così un percorso assieme verso il nostro essere umani di fronte a Dio.
Nell’ammettere e percepire la nostra nullità di fronte al Sacro, indubbiamente non potremmo che sentirci tutti fratelli, abbandonando fanatismi, egoismi e idolatrie.
Un altro concetto fondamentale di Rudolf Otto è caratterizzato dai termini tremendum e fascinans.
Il Sacro si manifesta come tremendum, ovvero come qualcosa che non essendo conosciuto e fino in fondo conoscibile, incute terrore, ma allo stesso tempo proprio questo aspetto ci attira e ci affascina.
Otto, utilizzando il metodo di analisi kantiano, definisce il Sacro come una categoria a priori, ovvero come elemento strutturante dello spirito di ogni uomo. Proprio quest’uso di elementi di analisi sia razionali che irrazionali, hanno avuto come conseguenza un’accusa nei confronti di Rudolf Otto da parte della Neo Scolastica, ove vigeva una totale armonia tra ragione e fede.
Prendendo visione del pensiero di Otto nell’oggi contemporaneo appare invece una volontà di integrare, nell’esperienza religiosa, momenti razionali e non, senza però intaccare i cardini del Cristianesimo, anzi, volendo portare alla luce il fattore esperienziale della religione, intimo e personale, che quindi coniuga facilmente sia l’aspetto religioso, che quello più filosofico e mistico.
 
Penso che questa visione totalitaria sia molto attuale: risponde all’esigenza dell’uomo contemporaneo di trovare delle risposte nella religione, di collocarsi in essa con un ruolo attivo anche se esterno alla religione ufficiale, quel particolare dialogo con Dio che non deve perdersi nel dogmatismo. Spesso gli uomini si ritengono atei, come dice Maritain, non perché non credono in Dio, ma in quanto negano l’esistenza non di Dio ma di qualcos’altro, inconsciamente.
Ritengo che l’apertura di Otto possa dare spunto a queste persone per trovare la propria risposta. Per quanto mi riguarda il concetto di Sacro è servito molto alla mia ricerca spirituale; un concetto di Sacro “aperto”, che non cancella quello che è l’aspetto strettamente religioso e razionale, assieme al concetto più spirituale e nascosto del termine, se ben equilibrati, evitano fanatismi o bigottismi di ogni genere. Non si può spiegare tutto con la ragione, bisogna anche lasciar spazio al non-detto, al misterioso, ma neppure si può spiegare ogni cosa utilizzando solo criteri mistici e misteriosi, rischiando di lasciare la propria ragione in balia di qualunque credo e qualunque leader che tale si voglia definire.
Un altro filosofo che ha saputo unire in modo armonioso il metodo trascendentale di Kant e la filosofia di S.Tommaso, massimo rappresentante della filosofia cristiana, è Karl Rahner (1904-1984).
Come Rudolf Otto, anche Karl Rahner parla di elemento soggettivo e a priori della conoscenza umana. Il pensiero di Rahner apre le strade alla visione antropologica, svolta contemporanea della teologia.
Ritenere, come fa Rahner, che per parlare di Dio è necessario comprendere le modalità con cui ogni individuo si avvicina a Lui, significa (a mio avviso) aprirsi alle altre culture e cercare un punto di incontro tra le fedi, laddove l’interlocutore di ognuno è, e rimarrà sempre, Dio.
La teoria di Rahner tratta l’esperienza umana studiata dal punto di vista della sua coscienza. Le critiche a lui volte sostengono che in questo modo si dia più attenzione all’uomo che a Dio, e probabilmente sono pensieri ancora fermi alla sola “religione” e non ancora vicini al Sacro, e quindi al dialogo personale dell’uomo con Dio. Non penso che Rahner volesse dare più visibilità all’uomo, alle sue pratiche, ai suoi usi e costumi, che alla sua coscienza, alla sua visione del Sacro, alla sua religiosità, al suo dialogo con Dio. Cosa può essere la religione e la spiritualità se non vi fosse dialogo? Gesù dialogava con i discepoli e con il popolo per farsi comprendere e far comprendere la vera natura e il vero volto di Dio.
Il Vangelo secondo Giovanni si apre dicendo:
 
“In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.”
 
Il titolo del libro “Uditori della Parola” di Rahner mi porta alla mente, sempre per rimanere nel contesto interreligioso e nel “piano comune” di tutte le grandi religioni, la teoria legata ai 4 Veda indiani. Infatti si ritiene che i Veda provengano non da una tradizione umana ma da una natura divina: inizialmente trasmessi oralmente, verso il 1500 a.C. furono redatti. La tradizione vuole che a trascrivere i Veda siano stati i Sapta Rishi (i 7 veggenti), i quali avrebbero trascritto ciò che hanno udito. Infatti i Veda fanno parte della Śruti, che in sanscrito significa la tradizione udita”.
Karl Rahner ha chiamato così la sua opera per sottolineare l’uomo in quanto persona, con una sua esistenza e ricerca reali. Il suo uomo-persona, l’uomo religioso, non è solo alla ricerca e aperto al Sacro, ma anche in attesa di una rivelazione di Dio. Rahner sottolinea così l’aspetto antropologico dell’uomo che, ai fini della filosofia della religione, è aperto tanto al Sacro quanto alla Rivelazione di Dio.
A questo proposito egli cita la nozione di S.Tommaso di potentia oboedentialis, ovvero la possibilità proposta all’uomo di poter obbedire ad un richiamo che proviene da Dio stesso, la possibilità, con la Sua Rivelazione, di essere elevato a un livello più alto di coscienza. Secondo Rahner se l’uomo non accogliesse questa possibilità, la Rivelazione, quant’anche avvenisse, gli rimarrebbe estranea.
L’uomo è libero di scegliere, ma non basta volerlo, in quanto a decidere se agire e rivelarsi è alla fine Dio.
Rahner qui si allontana dalla teoria di Otto, che secondo lui rischia di far perdere all’uomo il suo libero arbitrio, lasciandolo in balia di un concetto di Sacro vissuto come entità “altra”: l’uomo è spirito, e lo spirito non può decidere per Dio di rivelarsi o meno, ma in quanto tale può ascoltarne anche il silenzio. Di fronte a Dio, così, l’uomo ritrova la sua libertà e riconosce quella di Dio.