“(…)Una
teologia e una spiritualità come quella che si è fatta intorno a Shantivanam è
dunque importante. Essa non è confusione, non è relativismo, non è sincretismo,
ma semplicemente ricerca di una verità che non può essere contraddittoria. Il
cristianesimo ha bisogno di fecondarsi con l'India, di arricchirsi attraverso
la sua cultura religiosa. Il messaggio di Cristo, dopo il Giordano, dopo Atene,
forse non si deve fermare sul Tevere, forse ora è il momento del Gange... La
chiesa si può solo arricchire incontrando l'India, così come si è arricchita
incontrando il mondo greco e quello latino. Diceva Le Saux: "Se il mistero
cristiano è vero lo si ritroverà intatto anche all'interno dell'esperienza
svuotante del Vedanta". In fondo è stato così. Tra le sue ultime e più
enigmatiche frasi c'è un'espressione radicale: "Il Cristo per me sono
io". In questa esternazione c'è tutto il cristianesimo, ma c'è anche
l'advaita, la non dualità del Vedanta, sebbene negli ultimi anni si sia
piuttosto avvicinato al tantrismo. Pur con le domande aperte, dunque, e il
necessario cammino valutativo che deve fare la teologia, Shantivanam
rappresenta un'esperienza di dialogo straordinaria, e una grande ricchezza per
la chiesa impegnata a inculturarsi nei contesti dell'Oriente."
Ritengo che,
nell’ottica del dialogo interreligioso, l’incontro tra Oriente e Occidente sia
necessario per comprendere meglio noi stessi, le nostre origini e così le
origini della nostra fede. D’altronde Gesù stesso non è nato in Europa o in
America. Si dice che grandi Maestri come ad esempio Paramahansa Yogananda
(1893-1952 autore di “Autobiografia di uno Yogi”) sono stati inviati in
Occidente perché avevamo bisogno dello Yoga e degli insegnamenti ad esso
correlati.
In effetti è così: abbiamo grande
bisogno degli insegnamenti dei grandi Maestri Orientali, ma non per rinnegare
la nostra fede e scoprirne un’ altra, ma proprio per creare una fede ancora più
forte, concreta e solida, partendo dall’incontro delle due religioni. Un
ritorno alle origini che in questa epoca nera abbiamo perso e dimenticato
troppo spesso.
In questo articolo mi riferisco
all’incontro tra Induismo e Cristianesimo. L’induismo è la religione più antica
esistente, soprattutto la più immutata nel tempo. E’ forse l’unica religione
così aperta da porsi già di per sé, per sua natura, a favore del dialogo fra le
religioni, prima ancora che in Occidente si cominciasse a parlare di dialogo.
l’India è uno dei pochi paesi, se non l’unico, in cui non ci fu antisemitismo,
un paese in cui molti ebrei si rifugiarono, senza venire discriminati.
Vi sono molte critiche, dal punto di
vista cristiano, rivolte alla visione teologica induista, ma per quanto
riguarda la mia esperienza e i miei studi, fino ad ora incontro molti (e sempre
di più) punti di contatto che distanze.
Innanzitutto l’induismo sottolinea
sempre l’importanza dell’esperienza personale con il Divino, prima ancora che
le parole di grandi teologi, che rimangono comunque essere umani. Ciò non
toglie la fondamentale importanza dei Testi Sacri e della loro indiscutibili
Verità (come giustamente avviene per ogni religione), ma rimane il fatto che
l’induismo sia la religione più aperta e flessibile.
Nello Yoga, a volte e sempre da un punto
di vista cristiano, viene criticata la visione dell’ Advaita Vedanta, la Non Dualità
tra Maya (il mondo illusorio che ci circonda) e Dio, ovvero la teoria della
realtà secondo cui non esisterebbe distinzione tra Creatore e creato.
Io ritengo che la questione sia ancora
aperta, un dialogo da proseguire, perché nel Vedanta esistono anche altre due
correnti ortodosse, che solo il Dvaita (è la teoria della realtà che sostiene
la distinzione delle anime e del mondo, cioè il dualismo tra la creazione e il
Creatore, pur nel loro inseparabile ed eterno legame, è la visione più vicina
al cristianesimo) e il Dvaitaadvaita (Maya e Dio sarebbero la stessa cosa ma
anche, e contemporaneamente, divisi e distinti).
Non possiamo quindi, quando parliamo di
induismo, chiuderci dentro una sola parola, una sola affermazione, perché più
scavi nell’induismo, più trovi, e non c’è fine alla ricerca.
La visione del mondo secondo l’induismo
da una spiegazione a questo: Brahmanda Pindanda: il piccolo si ritrova nel grande e
viceversa. Quindi la realtà è tutto e il contrario di tutto.
La speculazione filosofico-teologica è
importante per la crescita individuale, ma rimane frutto dell’uomo, solo
l’esperienza personale e l’intimo dialogo con Dio, come ad esempio attraverso
lo Yoga, ci darà le risposte giuste.
Nei suoi discorsi Sri Chandra
Sekharendra Saraswati Swamigal (1894 – 1994) sostiene che la Grazia ci è data
dal Brahman attraverso la Moksa (liberazione), se non in questa vita nelle
future, purchè continuiamo la nostra ricerca verso la Verità e l’Unione.
Si critica spesso anche la visione
dell’induismo come di una religione che non dà grande importanza all’individuo,
alla sua personalità, perché è comunque parte di un Tutto, mentre il
cristianesimo dona all’individuo la sua personale importanza. Sinceramente,
umilmente, non sono d’accordo.
Ci si ferma all’idea delle caste,
all’idea del Karma, ma guardandoli solo in superficie, dipingendo il ritratto
di un’India crudele e classista. In un’attenta analisi si dovrebbe prendere
singolarmente la cultura, la società, i costumi e la religione, gli individui,
ed eventualmente analizzare un fenomeno alla volta, sotto i suoi vari aspetti e
contesti.
Rimanendo all’interno dell’induismo
solamente, ritengo che il Dio indù non potrebbe non dare importanza al singolo:
intanto perché ama le sue creature come il Dio cristiano, come d’altronde
avviene da parte di ogni forma di Divino in ogni religione.
In secondo luogo, prendendo in
considerazione la pratica dell’ Astanga Yoga, si presuppone uno stile di vita
che prende necessariamente in considerazione l’Altro: il rispetto per l’ Altro,
la non violenza, l’onestà, la castità, e così via..(Yama e Niyama), tutti
atteggiamenti e precetti etico-morali che non possono prescindere dall’incontro
con l’Altro, in terzo luogo, se l’individuo non fosse importante non si
potrebbe parlare di elemosina verso i poveri: i Samnyasin (i rinunciatari) non
potrebbero basare la loro sopravvivenza solo sulle offerte e non ci sarebbe un
percorso verso la Moksa (liberazione) che presuppone l’abbandono dell’Ego e
dell’attaccamento materiale.
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